Pensavo fosse Futuro invece era un calesse

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Il coronavirus ha impartito alle aziende e alla società tre indimenticabili lezioni. La prima: “Mai parlare di Futuro se non lo stai vivendo per davvero”. E’ bastato un virus per riportare indietro l’orologio della Storia di cento anni, nel giro di qualche settimana. All’epoca dell’ “influenza spagnola” (1918-19) non c’erano il Digitale, l’Intelligenza Artificiale, gli Algoritmi, le Learning Machines, i Big Data e gli Analytics. E di “Disruptive” c’era stata soltanto la Prima Guerra Mondiale. Per un momento, ho pensato che, una volta isolato il virus, i dati venissero inseriti in un sistema di “Deep Learning” e di lì a poco uscisse fuori, quasi per magia, la formula del vaccino.

Il mito dell’Innovazione di questo Ventennio mi ha portato a credere che scienza e fantascienza si fossero magnificamente sovrapposte. Mi sono convinto che, qualunque problema l’umanità avesse avuto da ora in poi, la “Digital Revolution” l’avrebbe risolto. Ho sognato di robot, vetture a guida autonoma, droni, sensori, nanotecnologie, biotecnologie, dispositivi smart. Svegliandomi una mattina, mi sono ritrovato in una kafkiana quarantena, con scuole chiuse e centri commerciali aperti. Nel sistema istituzionale, era saltato anche il basilare concetto di prevenzione: “Occuparsene prima – fin dalle prime avvisaglie di metà gennaio – per evitare di preoccuparsene dopo”.

Fig educazione del futuroSeconda lezione: “Il lavoro può essere organizzato e svolto anche fuori dall’ufficio”. Ci voleva una epidemia per sdoganare lo “smart working”. Ma lo smart working non è lavorare a casa per motivi di quarantena. Non è la soluzione contro l’assenteismo nella Pubblica Amministrazione. I selfie sorridenti su LinkedIn con la tazzina del caffè vicino al pc sono di persone alle quali non pare vero di stare qualche giorno a casa lontano dall’ufficio. Questo è crazy working.

Il vero smart working è invece il frutto di una precisa progettazione organizzativa che combina competenze manageriali – saper fare remote management – e normative, sulla base di un motivato consenso degli smart workers. Di solito, fa leva sull’introduzione di innovazioni in azienda. E’ soprattutto una delega fiduciaria data a lavoratori dipendenti. I lavoratori autonomi con o senza Partita IVA sono “smart workers” loro malgrado. Un avvocato è un avvocato, un idraulico è un idraulico, un fattorino è un fattorino, un consulente esterno è un consulente esterno: non sono “smart workers”.

Terza lezione: “La scuola del cambiamento o il cambiamento della scuola”. Il problema non è tanto la chiusura delle scuole e delle università, quanto il loro essere inchiodate alla fisicità assoluta. O si va fisicamente in aula oppure niente. Il coronavirus, ma anche le situazioni da “allerta meteo” o legate ad altre calamità, ci confermano l’impressionante grado di arretratezza del nostro sistema educativo. Assistiamo alla totale incapacità di virtualizzare le aule, attraverso sistemi di e-learning, per consentire la continuità didattica e formativa. Alcune scuole si sono attrezzate per garantire le lezioni a distanza ma sono oasi nel deserto. Un Ministero dell’Istruzione che non innova il sistema educativo e non lo mette in condizioni di lavorare anche durante le emergenze, è soltanto una inutile e costosa burocrazia. E la scuola o insegna il cambiamento o deve cambiare mestiere.

Insomma, parafrasando il titolo di un film di Massimo Troisi, pensavo fosse Futuro invece era un calesse. Lo stesso calesse che i fratelli Caponi (Totò, Peppino e la malafemmina) utilizzavano per spostarsi e fare gli scherzi ai vicini di casa. Era il 1956.

 

su autorizzazione dell’autore, pubblicato su HROnline, AIDP, 6/2020

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