Le rigidità flessibili dell’HRM giapponese
Il Giappone viene spesso ricordato per le caratteristiche peculiari del suo sistema di Human Resource Management. In particolare, il cosiddetto contratto di “impiego a vita” (life-term employment) è richiamato ancora come un caso estremo nel contesto internazionale di relazioni industriali, per la “fidelizzazione” reciproca fra lavoratore ed azienda.
La reciprocità consisterebbe in uno “scambio implicito” , tra fedeltà e dedizione da parte del lavoratore, con sua disponibilità ad una elevata flessibilità di orario e di mansioni, e una “responsabilità” assunta dal datore di lavoro a garantire, a meno di contingenze estreme, la stabilità dell’impiego e dinamiche salariali tali da garantire una sussistenza familiare dignitosa.
Non siamo più nei decenni d’oro del “miracolo giapponese”. Si sono susseguiti periodi di persistente ristagno economico e, nel frattempo, l’accresciuta capacità competitiva dei paesi emergenti nell’area asiatica, ha certamente eroso le posizioni di vantaggio conquistate dal “modello” giapponese. Ne sono mancate crisi settoriali di ampio impatto, con ridimensionamenti di manodopera (nella cantieristica, metallurgia, ecc.). Tuttavia in Giappone, almeno nei segmenti più privilegiati e meno esposti (grandi imprese, enti ed amministrazioni pubbliche, ecc.), un modello di contratto che copre l’intero ciclo lavorativo appare ancora diffuso.
Nelle visioni di antropologi e sociologi, queste pratiche sarebbero un retaggio – non trasferibile ad altri contesti – di una “specificità giapponese”, in cui si sarebbero consolidati nel tempo etica “confuciana”, senso di appartenenza e solidarietà “clanistica”, trasferita da un contesto feudale ad una identificazione con la missione aziendale, ecc.
Tuttavia, non sono mancati economisti che hanno sottolineato come, al di là delle particolarità socio-antropologiche, tali pratiche di “HRM” trovano un fondamento razionale in termini di strategie di valorizzazione delle risorse umane, con ricadute positive per l’efficienza nel lungo termine delle imprese. Ad esempio, aspettative di stabilità del rapporto d’impiego incoraggiano l’ “investimento in capitale umano specifico” dei lavoratori. Di qui il perchè della diffusione in Giappone di pratiche come la “job rotation” e la flessibilità mansionale (sia per “blue-collar” che “white-collar”). Lo sviluppo di pratiche “kaizen”, hanno promosso il coinvolgimento diretto con suggerimenti “dal basso”, con premi di produttività per individui o squadre che avessero contribuito ad un efficientamento produttivo, o al miglioramento nell’organizzazione del lavoro, nell’ergonomia delle postazioni, nella movimentazione logistica, ecc.. Infine , “last but not least”, un sistema retributivo con una elevata incidenza di “bonus” di fine anno, con mensilità addizionali di stipendio variabili secondo i risultati aziendali; di fatto una pratica di “profit sharing” che rimaneva tuttavia non codificata e lasciata sostanzialmente alla discrezionalità del management.
Questa immagine positiva che abbiamo del “HRM” alla giapponese, non tiene tuttavia conto della successiva evoluzione che è intervenuta nello scenario. Innanzitutto, le posizioni di forza e di “leadership” competitiva del Giappone, in aree come l’elettromeccanica ed elettronica di consumo, è stata ridimensionata radicalmente dall’emergere dei nuovi competitor sulla scena asiatica, il gigante cinese in primo luogo. Le stesse imprese giapponesi hanno avviato ampi processi di esternalizzazione. Aree di privilegio e tutela, per livelli retributivi e sicurezza del lavoro, si sono ridimensionati.
Bisogna anche ricordare che in Giappone si è formata nel tempo una realtà del mercato del lavoro – forse anche più che in Italia – caratterizzata per la sua radicale segmentazione dualistica. All’estremo opposto del contratto a vita, infatti, possiamo citare il cosiddetto “arbaito” (deformazione del termine tedesco per lavoro meno qualificato), ovvero accordi individuali per prestazioni di opera, con ore e paghe orarie concordate, totalmente flessibili e terminabili in qualsiasi momento per la volontà di una parte: esempi, impieghi part-time retribuiti su base oraria nei servizi di ristorazione, pulizia, ecc.
Nella apologetica dei commentatori giapponesi, queste forme di lavoro temporaneo costituirebbero essenzialmente un’opzione volontaria del lavoratore, spesso con altri impegni e alla ricerca di un’integrazione di reddito (es. lo studente lavoratore con qualche ora di lavoro da cameriere per contribuire al pagamento delle rette universitarie o per avere “argent de poche”; donne sposate con figli in età scolare, alla ricerca di impieghi remunerati negli intervalli liberi da impegno familiare, per lo più ancora nelle mansioni di servizi meno qualificati).
Tra il “contratto a vita” e lo “arbaito”, coesistono, e sono cresciute nel tempo in incidenza, altre tipologie contrattuali definibili come atipiche”: contratti a tempo determinato di varia durata e natura, lavoratori “somministrati” dalle agenzie interinali, ecc. In questo, nulla di sostanzialmente diverso da quello che è successo anche in contesti a noi più vicini. La quota di forme “atipiche” (includendo nella categoria tutte le forme di lavoro dipendente non coperte da un contratto a tempo indeterminato) è cresciuta, in particolare negli anni più recenti dopo la Crisi finanziaria, da circa 17,2 milioni su 51 milioni di dipendenti (il 33,7%) nel 2007, a 20 milioni su 52 milioni di dipendenti (il 38%) nel 2014. Dettagli per fasce di età rivelano, anche in Giappone, l’allargamento delle situazioni di disagio giovanile, con una precarietà che persiste al di là di una fase iniziale di transizione scuola-lavoro.
Tuttavia, sia pure nei limiti di questa caratterizzazione “duale” del suo mercato del lavoro, nelle prassi “tipicamente giapponesi” si trovano ancora forme di “internalizzazione delle flessibilità nell’ambito dell’impresa” , che vale la pena approfondire anche come riferimento per contesti di altri paesi “maturi”, quale il nostro. Ci riferiamo più in particolare alle formule di “pensionamento graduale”, o a forme di “part-time” in uscita. Sono pratiche da sempre esistite in Giappone, ma che appaiono oggi trovare nuovi spazi di applicazione, nel contesto dell’allungamento della vita , attiva e non, di invecchiamento della forza-lavoro, anche se di difficile gestione per le Casse pensionistiche, sia per i regimi pubblici e anche privati, quali fondi assicurativi finanziari e schemi aziendali.
Normalmente, i dipendenti con contratto a tempo indeterminato, escono dalla posizione e retribuzione regolare all’età mandatoria di 60 anni (in anni lontani questa età era anticipata a 57; oggi, a fronte delle dinamiche demografiche, gli incentivi di policy vorrebbero spostarla più in avanti). Tuttavia, il tasso di attività (maschile) , nella classe 60-65, e financo 65-70, rimane caratteristicamente elevata in Giappone. Il fenomeno è dovuto, in parte, alla diffusione di forme di “precariato anziano” nei mercati secondari del lavoro. Ma per altra parte è anche legata alle pratiche di “utilizzazione prolungata” nell’azienda , sotto diverse fattispecie di accordi personali. La terminologia usata nella traduzione inglese per queste forme è quella di “entrusted workers” (corrispondente, grosso modo, a “lavoratore con affidamento di incarico”). I lavoratori, “scaricati” da un contratto come dipendente , rimangono in tal caso in azienda (o sono, a volte, “inviati in missione” presso sussidiarie, subfornitori, ecc.) per compiti fortemente legati alla particolare esperienza, come attività di addestramento, affiancamento dei giovani, o anche di consulenza amministrativa, o relazioni pubbliche.
Il costo del lavoro dell’impresa in tal modo scende in modo drastico: l’incarico” è remunerato spesso a circa la metà dell’ultimo stipendio, e non si applicano più gli oneri contributivi. Dall’altra parte, il lavoratore anziano può cumulare assegni pensionistici o rendite assicurative , ove già maturate, di fonte pubblica e privata. I lavoratori con “affidamenti”, secondo l’ultimo rapporto del “Japan Institute of Labor”, rappresentano, nel 2010, il 2,55 di tutti i lavoratori dipendenti, ai quali si possono aggiungere l’1,5% dei “trasferiti in missione” presso imprese satelliti.
Non bisogna certo sopravvalutare consistenze e campi di applicazione di questo fenomeno: si tratta sempre di soluzioni che coinvolgono un personale qualificato e fidelizzato, ed escludono normalmente quei lavoratori con storie di discontinuità lavorativa o minore qualificazione (e quindi di fatto la componente femminile). Le caratteristiche discriminatorie di un sistema che privilegia componenti maschili con gradi di istruzione medio-alto, risultano pertanto confermate.
Tuttavia la diffusione del fenomeno sopra descritto è forse un’ulteriore dimostrazione delle “rigidità flessibili” caratteristiche dell’HRM giapponese, cioè di uno sforzo di conciliazione fra “stabilità” del rapporto e “flessibilità” delle forme di uso, ricercato all’interno dei sistemi di impresa e non scaricato sul “welfare” pubblico. Un tasso ufficiale di disoccupazione in Giappone, che rimane stranamente contenuto (al 3,4 % a fine 2015) , nonostante la bassa crescita e le numerose ricadute nella recessione e deflazione, è forse anche un riflesso di queste “flessibilità”.
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