Aged workforce: una “via mediterranea” per le politiche HR

L’affannarsi delle riflessioni organizzative, gestionali, psicologiche e sociologiche sul tema della gestione del personale over 55, trova una sua ragion d’essere nei profondi rivolgimenti in tema di previdenza, che hanno allontanato (e di molto) età e requisiti contributivi per l’ottenimento della pensione, facendo uscire prepotentemente la riflessione sull’ ”ageing” dai recinti del dibattito accademico, fino ai tavoli delle Direzioni del Personale delle Aziende, nonché tra gli “alert” dei cruscotti strategici dei Direttori Generali e degli Amministratori Delegati.

In realtà il tema è assai complesso, in quanto i lavoratori cosiddetti “anziani” si sentono soggetti a due riflessioni contraddittorie: da una parte si chiede loro di dare “spazio ai giovani”, quindi per quanto possibile, alleggerire i costi aziendali e consentire lo sviluppo di forze emergenti, dall’altro di pensionarsi più tardi (in molti casi ASSAI più tardi), per alleviare i costi economici e sociali della previdenza, peraltro con scarsa possibilità – allo stato - di scegliere un’uscita anticipata che non sia eccessivamente penalizzante.
Appare pertanto complesso offrire un contributo originale sul tema dell’ageing. Si può fare però tesoro della esperienza vissuta e delle riflessioni che possono derivare dall’aver sperimentato negli anni (bene o male e con variabili risultati) quasi tutte le politiche di intervento sul Personale, da quelle “hard” a quelle più “psico-sociologiche”.

Fino a qualche anno fa il tema non esisteva o meglio non aveva grande rilevanza. Salvo qualche eccezione (in genere da parte di Aziende di altissimo livello), l’azione che veniva chiesta ai Responsabili del Personale era esclusivamente tesa a “mettere fuori” - con l’ingrigirsi delle tempie e l’avvicinamento alle fatidiche soglie della pensione – il maggior numero di risorse potenzialmente interessate, per favorire il ricambio generazionale in azienda (come si dichiarava), ma in realtà anche con l’evidente scopo di ridimensionare (o quanto meno stabilizzare) il costo del lavoro.
L’uscita del personale aged serviva anche a modificare nel tempo la segmentazione dello stesso costo del lavoro, in quanto consentiva di minimizzare soprattutto la componente di tipo “collettivo” (tradizionalmente quello più antico, ovvero più vicino ai rivolgimenti sindacali degli anni ‘70 e ‘80), favorendo e privilegiando le retribuzioni più ricche di componente variabile o comunque meno strutturate e “intoccabili”.
La politica di uscita (almeno in alcuni momenti storici) non ammetteva o prevedeva eccezioni: chiunque era “aggredibile”. Gli importi per l’uscita pingui, le regole pensionistiche favorevoli, e l’età degli interessati oggettivamente ancora verdi, erano tali da poter prospettare agli “esodabili” un interessante futuro da pensionati, sostanzialmente ricchi e in buona salute.

Devo ammettere che questo “rassicurante” quadro - già negli anni passati - non mi convinceva del tutto: l’azione veniva svolta (come da indicazioni “aziendali”) anche verso risorse assai critiche per l’organizzazione, la cui uscita (ma di fatto, spesso, il semplice colloquio finalizzato alla prospettazione di un possibile esodo) era foriera di problemi, disagi, o addirittura “perdite economiche” dirette o indirette, e certamente per diverse posizioni aziendali comportava un vero “shock organizzativo”, con affannose rincorse per sanare le singole situazioni. Senza pensare al capitale umano di esperienza e umanità che veniva a disperdersi ...

Il “ciclone Fornero” e le successive evoluzioni normative, che hanno creato tanti casi complicati di “esodati non pensionati” rimasti in mezzo al guado del non-lavoro e della non-pensione, hanno quanto meno reso necessaria la profonda riflessione in corso sul tema. Non ritorno sulle ricette note riguardo reingegnerizzazione dei processi, riorganizzazione del lavoro, formazione, tutoring e mentoring, etc., che tutti - chi più chi meno - propongono e che sostanzialmente condivido. Intendo provare a parlare della loro sostanziale e reale applicabilità nelle aziende, almeno pensando a quelle che vedo e che ho visto nella mia vita professionale.
Intanto va analizzato chi è l’aged worker in azienda e quali comportamenti, valori e necessità lo caratterizzano. In azienda in genere si tratta di persone che hanno, oltre all’età elevata, una anzianità aziendale conseguentemente elevata, con un profondo background di conoscenza dell’azienda e un patrimonio di esperienze adeguato e ricco.
Hanno una retribuzione (e un conseguente tenore di vita) in genere pari al quartile più elevato del livello di appartenenza (indipendentemente se quadro, dirigente o impiegato). Hanno figli grandi, che salvo qualche caso fortunato, non sono ancora entrati nel mondo del lavoro (in cui comunque si entra purtroppo più tardi di una generazione fa), o se lo hanno fatto, hanno trovato solo “posti in piedi” (stage, rapporti a t.d., in nero. etc). Devono rimanere in azienda per forza ancora a lungo, (66-67 anni e forse più), e nessuno sembra loro offrire più i ricchi esodi di cui hanno sentito parlare, con malcelata invidia, solo fino a pochi anni fa.

Pertanto, il primo vero aspetto critico è la retribuzione. Ogni azione di modifica organizzativa formativa e di ridisegno dei ruoli non può andare a scapito del livello retributivo posseduto, percepito e atteso. Ovvero, va effettuata una robusta, intelligente e variegata politica retributiva per l’age management, perché gli interessati possano essere convincentemente motivati a spostamenti nell’organizzazione, ai nuovi ruoli o a impegni di tutoring e mentoring.
Ovviamente, non significa necessariamente aumentare il costo del lavoro, ma modularlo, ovvero far entrare nella mente dei decision maker aziendali che:
• le aziende sono obbligate a mantenere in organico tale categoria di risorse quasi inevitabilmente a lungo
• gli over 55 sono un “valore” per l’organizzazione, in termini di esperienza e network di relazioni, patrimonio di capacità e competenze
• la loro “inazione” o peggio “controdipendenza” può essere fonte di danni sia organizzativi che economici.

Pertanto, diventa necessario costruire una politica “retributiva” ad hoc per l’“ageing people”, costruita sulle loro specifiche esigenze, non solo in termini di elementi squisitamente monetari, ma anche di welfare e forme di benefit alternativi (ad oggi da valutare quanto detassabili).
Con l’avvio di una concreta politica in tal senso, sarà possibile attuare con maggiore facilità gli interventi di ridisegno dell’organizzazione, di modifica dei ruoli, e forme di tutoring, che potranno essere vissute dagli interessati come un sostanziale segno di attenzione e coinvolgimento, piuttosto che un modo – surrettizio – di diminuzione (di fatto) dell’impegno “economico” e dell’investimento psicologico dell’azienda verso di loro.
In una parola integrare - con cautela e attenzione - le politiche meritocratiche verso gli “high flyers” aziendali, con una oculata politica retributiva per il coinvolgimento e la partecipazione attiva degli “aged worker”.
Ogni modifica di ruolo in tal modo sarà meglio accettata, gli over 55 si sentiranno parte dell’organizzazione a pieno titolo e vivranno assai meglio la necessariamente più lunga vita lavorativa.
Dobbiamo trovare pertanto nel contesto italiano, e viste le caratteristiche sociologiche ed economiche del nostro Paese, una “via mediterranea” all’aged management, che renda accettabile ciò che è inevitabile e necessario.

Tags: valutazione e sviluppo HR

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