Visione e leadership: la via che ho seguito nella strategia di digitalizzazione

La visione è importante in una strategia di digitalizzazione tesa a rompere alcuni schemi consolidatisi nel tempo. Serviva senza dubbio per coinvolgere coloro che dovevano operare come agenti del cambiamento
Quando il Direttore Generale mi affidò l’incarico di guidare l’allora Direzione Centrale per i Servizi Informativi e le Telecomunicazioni, il mandato ricevuto fu quello di condurre la Direzione oltre un bivio, imboccando uno dei due percorsi alternativi prospettati.

Il primo percorso prefigurava essenzialmente un’operazione di full-outsourcing dei servizi informatici verso fornitori privati, mantenendo attiva solo una componente ristretta della Direzione che avrebbe svolto una funzione di facilitazione tra il contesto interno delle Direzioni centrali dell’Istituto, con i loro bisogni e le loro aspettative, e le società di servizi IT esterne.
Il percorso alternativo, invece, ben più impegnativo, consisteva nel recuperare e strutturare la governance dell’IT, attraverso una profonda rivitalizzazione della Direzione, per divenire motore e guida del processo di digital transformation dell’Istituto.

Sin da subito, nei primi incontri con i miei collaboratori cercai di rappresentare in maniera trasparente lo snodo strategico che avevamo davanti. Durante i primi mesi dedicati all’osservazione del contesto, avviai i primi staff meeting, le riunioni da me indette con i primi riporti responsabili degli uffici. In queste riunioni le persone faticavano a parlare apertamente davanti ai colleghi in merito a questioni che esulassero dall’operatività quotidiana a cui normalmente erano abituate. Talvolta, mi veniva da pensare che vedessero il mio arrivo come una forma di commissariamento, complice il fatto che provenivo dall’esterno, ed ero lì su precisa scelta del Direttore Generale.
Ognuno si identificava esclusivamente con il proprio ufficio, e di fatto avevano eretto dei muri di cinta che sembravano essere insormontabili: nessuno provava ad affacciarsi oltreconfine per valutare le opportunità di scambio o per cercare semplicemente di capire chi ci fosse dall’altra parte. Alla luce di ciò, ravvisata la necessità di individuare i modi più efficaci per cercare di smuovere queste rigidità, avevo avviato delle iniziative finalizzate a far socializzare tra loro i responsabili degli uffici. Oltre ai periodici staff meeting, iniziai a creare molteplici occasioni che consentissero ai responsabili di ritrovarsi assieme a confrontarsi con contesti diversi: momenti di condivisione con esperti esterni per confrontare esperienze, riunioni in cui rappresentare la Direzione IT ai tavoli con le Direzioni centrali dell’Istituto o altre Istituzioni, piuttosto che con aziende fornitrici per impostare programmi di lavoro.

5.1 Leadership del cambiamento

Pian piano, avevamo aperto la partecipazione a questi eventi anche ad alcuni professional che avevano manifestato una particolare predisposizione a rendersi parte attiva del cambiamento. Questo con l’intendimento di allargare la platea di coloro che avrebbero dovuto svolgere un ruolo da agente del cambiamento; persone che, non essendo responsabili di ufficio, avrebbero potuto lavorare on-field per condividere con i colleghi le evidenze che rendevano necessario il cambio di rotta, e trainarli verso le nuove mete che si stavano delineando con la revisione della mission della Direzione.
Tutte queste attività andarono a popolare quello che battezzammo NEXTDCSIT, ovvero il primo programma strategico che ci demmo per segnare la rotta del cambiamento. Esso era articolato su sette direttrici che intervenivano, tra le altre cose, sulle persone, sulla struttura organizzativa, sulla riorganizzazione per processi, sull’assessment e sul potenziamento delle competenze secondo gli standard EUCIP e poi e-CF , sull’infrastruttura tecnologica, sugli applicativi, e sulle policy relative ai rapporti con le società fornitrici e con gli stakeholder.

La prima riorganizzazione fu realizzata un anno dopo il mio arrivo ed era finalizzata a rompere completamente gli equilibri pre-esistenti, ridimensionando le dinamiche inerziali che gravitavano attorno alla precedente configurazione delle aree di responsabilità. Queste furono ridisegnate con l’intendimento di abbattere i precedenti silos centrati su un eccessivo specialismo e recuperare il concetto di responsabilità sui processi strategici per la governance IT. I responsabili dei nuovi uffici ebbero l’opportunità di coinvolgersi attivamente nella redazione del primo Piano strategico triennale dell’IT. Quest’ultimo segnò un importante punto di discontinuità con il passato: il Piano strategico, per la prima volta, tracciava con chiarezza la rotta da seguire nell’arco del triennio di riferimento e ci proiettava verso la sfida della digital transformation. Questo ci ha consentito di realizzare quello che, per certi versi, ci viene riconosciuto come l’aspetto più riuscito: far leva sui fornitori strategici, dando loro evidenza di dove volevamo andare, per sfruttarne a pieno le potenzialità in termini di risorse, competenze ed esperienze, da riportare poi all’interno del nostro ecosistema. Sin da subito, infatti, mi ero reso conto che in assenza di una visione strategica di medio-lungo periodo, e per via dell’estemporaneità che di conseguenza caratterizzava i contratti di fornitura dei servizi IT, le aziende fornitrici non riuscivano a programmare e ad organizzarsi per supportare a pieno la nostra struttura. Questa è da segnalare come una delle cause alla base degli insuccessi del passato. Con il Piano triennale avevamo trovato la chiave giusta per limitare la “miopia” delle società fornitrici, offrendo loro la possibilità di predisporre una offerta all’altezza dei percorsi innovativi di trasformazione digitale sui quali chiedevamo loro di accompagnarci. Ciò ha modificato sensibilmente il rapporto con i fornitori, che potevano diventare così veri e propri partner. Fino ad allora, infatti, il rapporto che intercorreva tra le aziende fornitrici e la struttura IT era di fatto una sorta di body-rental con una buona parte delle risorse tecniche “tramandate” di contratto in contratto.
Realizzammo il primo Piano triennale con il pieno coinvolgimento dei responsabili degli uffici, potendo altresì beneficiare della contaminazione con esperti esterni, grandi player delle tecnologie e dei progetti di cambiamento.
Ciò, ci consentì di immaginare, condividere e strutturare percorsi più impegnativi e innovativi. Il kick-off del Piano avvenne al cospetto di una platea di 50 persone, che avevano partecipato a diverso titolo alla redazione; fu l’occasione per dare un segnale tangibile della discontinuità con il passato, e che da lì sarebbe partita una profonda trasformazione della missione della Direzione.

Da parte mia c’è stato sempre un notevole impegno nel far arrivare questo tipo di messaggio a tutte le persone all’interno della Direzione. Inizialmente non era stato possibile per via della mancata “comunicazione a cascata”, che non faceva arrivare il medesimo messaggio a tutte le persone all’interno dell’organizzazione.
La Direzione IT aveva sempre svolto un ruolo tendenzialmente esecutivo, ed era solita acquisire le esigenze di ogni Direzione dell’Istituto e tradurla in servizi informatici ad hoc. Il mio diretto coinvolgimento sui progetti – oltre che consentirmi di acquisire maggior consapevolezza di quanto si stesse facendo – era essenzialmente finalizzato a dare evidenza alle persone dell’evoluzione del nostro ruolo: dovevamo essere più proattivi, governare lo sviluppo tecnologico, orientare le scelte delle Direzioni di business, impattare fortemente sui processi organizzativi, riportare a sistema quel parco applicativo che sino ad allora era stato gestito in modo eterogeneo, inseguendo le esigenze di ogni singola Direzione.

La convergenza tra la vista tecnologica e quella organizzativa venne formalizzata con la seconda riorganizzazione che avvenne solo un anno dopo la precedente per dare origine alla Direzione Centrale per l’Organizzazione Digitale (DCOD). Il personale DCOD, nel tempo, ha fatto molti passi avanti, sia sotto il profilo tecnologico che organizzativo, agevolato dal contesto fortemente stimolante anche per effetto delle relazioni professionali con altre organizzazioni anche del settore privato e con i grandi player delle tecnologie e delle strategie IT. Se questa è stata una grande opportunità per tutti noi, ha però, nel contempo, allargato il gap di competenze digitali con il personale delle altre Direzioni dell’Istituto. Era sempre più evidente che stavamo viaggiando a velocità molto diverse. Apparve necessario trovare modalità che consentissero di colmare il divario.

L’occasione si presentò con la redazione del secondo Piano triennale, caratterizzata da un notevole sforzo di allineamento con tutto il management dell’Istituto per giungere ad una strategia digitale condivisa, delineando un percorso di cambiamento organizzativo abilitato dall’avanzamento della tecnologia. Eravamo pienamente consapevoli che per riuscire a coinvolgerli in una elaborazione strategica di forte discontinuità con il passato, avremmo dovuto utilizzare un metodo di lavoro appropriato a colmare – passo dopo passo, assecondando i loro tempi – quel solco di cultura tecnologica che nel frattempo si era creato.

Di fatto DCOD era già partita nel predisporre le piattaforme tecnologiche abilitanti; ora occorreva fertilizzare nelle Direzioni di business il commitment necessario per governare quel cambiamento organizzativo.
Era stato avviato, per esempio, il cosiddetto “progetto back end”, che metteva i primi mattoni per l’introduzione di piattaforme che consentissero una completa reingegnerizzazione di tutti processi di supporto trasversali. Parallelamente, era stato avviato il progetto per la riorganizzazione della rete di direzioni regionali e sedi locali, proprio confidando sulle nuove funzionalità digitali offerte dalla reingegnerizzazione dei processi core, vale a dire la gestione del rapporto assicurativo con le aziende e quello relativo ai servizi nei confronti dell’infortunato. Era quasi pronto il nuovo Portale web per veicolare i servizi digitali verso l’ampia e articolata platea di utenti. Si era vicini al rilascio delle dotazioni per implementare il nuovo digital workplace, abilitato dall’adozione di piattaforme digitali enterprise communication & collaboration in cloud per consentire al personale dell’Istituto di adottare modalità lavorative di tipo smart & mobile.
Nel confronto con gli stakeholder, ovvero le Direzioni dell’Istituto, sono sorte non poche difficoltà di comprensione ed allineamento su quali dovessero essere le priorità tra continuità ed innovazione, per il superamento delle quali abbiamo dovuto adottare un cosiddetto approccio “bimodale”. Esso doveva servire, da una parte, a garantire agli utenti la soddisfazione delle esigenze di continuità ed evoluzione delle soluzioni applicative attuali, evitando elementi di discontinuità nella gestione dei livelli di servizio. Dall’altra, modalità agile e design thinking sui progetti più innovativi e di reingegnerizzazione dei processi, che consentisse di coinvolgere gli utenti delle Direzioni di business su nuovi scenari customer centered di fruizione digitale dei servizi.

Nel tentativo di migliorare l’engagement delle Direzioni di business, si è cercato di adottare modalità di relationship management. Abbiamo introdotto la figura del demand manager (DM), poi evolutasi in business relationship manager (BRM), con l’intendimento di fluidificare la relazione e l’allineamento tra la strategia digitale, vocata all’innovazione e al cambiamento, con gli interessi ed i bisogni delle Direzioni di business che, per via dei livelli di servizio da garantire all’utenza esterna, sono oggettivamente più legati alla continuità.
Sin dall’inizio avevo spinto affinché le nostre persone, che avevano maggiore prossimità con le Direzioni centrali, maturassero un approccio orientato al servizio. Tutto ciò per non dare spazio ad una percezione della DCOD come struttura ‘’antagonista’’; abbiamo cercato ogni occasione per far comprendere che, facendo leva sulla tecnologia, volevamo contribuire a promuovere percorsi di innovazione per affermare e potenziare la missione istituzionale dell’Istituto.
Ma l’approccio al coinvolgimento partecipativo delle Direzioni utenti, si è riuscito a mantenerlo solo entro determinati limiti; le esigenze di rispetto delle milestone di progetto e la conseguente esigenza di ottimizzare il tempo ed i costi delle risorse coinvolte, prevalentemente esterne e contrattualizzate, ci suggerì di contenere i tempi dei ricicli decisionali nei processi agile, per soddisfare un più veloce avanzamento delle attività progettuali.

Nonostante abbia sempre, nel mio lavoro, tendenzialmente prediletto uno stile partecipativo, ci sono stati momenti in cui ho dovuto far ricorso ad uno stile più direttivo – non proprio a me confacente – quando necessario per re-imprimere una spinta in situazioni di stallo, di imbarazzo, di difficoltà, di paura. Talaltra, invece, è stato necessario adottare l’approccio tattico trovando i modi più efficaci per riuscire a fare alleanze strategiche con le altre Direzioni.
Uno stile che, invece, ho potuto adottare in tempi più recenti con i miei collaboratori, grazie alla loro maturazione, e soprattutto laddove occorreva stimolare l’innovazione, è quello che potremmo definire del “contadino”, cioè colui che si preoccupa di curare le proprie piantine e di rendere l’ambiente favorevole alla loro crescita.

Venendo al risultato di tutto ciò, nonostante i passi avanti compiuti su tutti i fronti, non siamo ancora riusciti pienamente a realizzare il percorso di trasformazione digitale dell’Istituto. Una delle ragioni è stata senza dubbio non tenere sempre presente quanto determinante fosse l’allineamento continuo tra nuove esigenze evolutive del business, sviluppo tecnologico, sviluppo organizzativo, sviluppo delle risorse umane, processi di pianificazione e processi di comunicazione.
A prescindere da quanto realizzato in questi anni in termini di innovazione tecnologica e di investimenti infrastrutturali, spesso di grande qualità e visione ed in linea con i best performer del cambiamento digitale, ciò che è mancato è quell’allineamento nel top management, di cui invece quei best performer si sono potuti avvantaggiare, facendone la leva del cambiamento ed il fattore chiave di successo della loro strategia di digital transformation.

Il periodo di forzato lock-down provocato dal Covid-19 ci ha dato la possibilità di misurare la nostra resilienza. Abbiamo fatto un notevole salto in avanti sulla consapevolezza delle nostre “capacità” digitali. Le persone hanno utilizzato strumenti e applicazioni come mai avevano fatto prima.
Dalla velocità di adattamento a tale situazione emergenziale, di infrastrutture, organizzazione e risorse è dipesa, infatti, la capacità delle strutture aziendali di fornire, nonostante la situazione generatasi, adeguati servizi alla propria utenza.
In un contesto che vede una maggiore virtualizzazione e delocalizzazione del lavoro sarà necessario preparare i responsabili al nuovo ruolo. I programmi di adozione dello smart working devono essere affrontati correttamente attraverso un adeguato ricorso ad un diverso modello di leadership, nel quale i dirigenti sono chiamati ad individuare nuove soluzioni e pratiche organizzative in grado di gestire il cambiamento, ridisegnando le forme e le modalità̀ di coordinamento e monitoraggio del lavoro.

* pubblicato con l'autorizzazione dell'autore

Tags: innovazione e project management, change management

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